Una vita come tante
Un sabato mattina, poco dopo il suo trentaseiesimo compleanno, apre gli occhi e ha la strana, piacevole sensazione che prova di tanto in tanto, quando si rende conto che la sua vita è senza nubi. […]
Punta le dita dei piedi verso il fondo del letto, poi le piega verso l’alto: niente. Riappoggia la schiena sul materasso: niente. Avvicina le ginocchia al petto: niente. Non sente alcun dolore, nessuna avvisaglia: il suo corpo gli appartiene di nuovo, pronto a compiere qualunque movimento gli passi per la testa, senza lamentele e senza ostruzionismi. Chiude gli occhi, non perché sia stanco, ma perché è un momento perfetto, e sa come gustarlo fino in fondo.
Momenti come quello non durano a lungo – a volte, gli basta alzarsi a sedere per ricordare, con la violenza di uno schiaffo in piena faccia, che è lui che appartiene al suo corpo e non viceversa – ma negli ultimi anni, man mano che la situazione peggiorava, ha lavorato sodo per rinunciare alla prospettiva di guarire, un giorno, cercando invece di concentrarsi sui rari minuti di tregua e di esserne grato, ogni volta e ovunque il suo corpo decida di concedergli. Finalmente si siede, con lentezza, poi si rialza, sempre con lentezza. E si sente in splendida forma.
Hanya Yanagihara, Una vita come tante